Alla fine degli ani Venti Albert Einstein legge l’Etica di Spinoza, in cui non vi è spazio per un Dio personale, un Dio che ha rivelato agli uomini una legge morale, un decalogo e il suo amore, nè per il libero arbitrio dell’uomo; ma sono anche gli anni in cui si appassiona ad un grande romanziere russo, Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881), ed al suo I Fratelli Karamazov, il romanzo più religioso di fine Ottocento, tutto incentrato sulla necessità dell’esistenza di un Dio nello stesso tempo giudice e amore misericordioso, per non rendere inutile e assurda la vita morale.
In una lettera del 1919 ad un collega fisico, Einstein scrive che I Fratelli Karamazov sono il libro “più meraviglioso che abbia mai avuto tra le mani”; in un’altra lettera, del 1921, a un amico filosofo confessa di provare “soddisfazione etica” nella lettura di Dostoevskij e di riceverne molto di più di quanto possa fare da qualsiasi scienziato; infine, in un dialogo del 1930 con un matematico e uno scrittore, afferma che Dostoevskij è un “grande scrittore religioso” capace di presentare un quadro “del mistero dell’esistenza spirituale… chiaramente e senza commento”.
Se si considera che il succo de I Fratelli Karamazov è l’idea secondo cui “se Dio non esiste, tutto è permesso”, si comprende bene il forte contrasto tra il Dio di Spinoza e il Dio cristiano di Alioscia Karamazov e di Dostoevskij.
Come si conciliano, allora, queste due passioni, questi due autori così diversi?
Anzitutto bisogna tener presente che il pensiero di Spinoza, complesso e talvolta volutamente ambiguo, è conosciuto da Einstein solo marginalmente: in più occasioni gli viene chiesto di scrivere commenti o prefazioni alle opere, ripubblicate, del filosofo ebreo, ed Einstein rifiuta sempre, dichiarando la propria inadeguatezza; in secondo luogo occorre evitare di considerare il grande scienziato un filosofo sistematico, sempre coerente, con una visione dell’esistenza statica nel corso degli anni (Spinoza verrà elogiato e nello stesso tempo contraddetto, implicitamente o esplicitamente, più volte).
La domanda religiosa attraversa tutta la vita di Einstein, e la risposta non è sempre identica, né è sempre nitida e precisamente delineata.
L’unica costante è un sentimento religioso che non verrà mai meno, e che anzi, crescerà con il passare degli anni. Ha scritto il grande fisico teorico Freeman Dyson, suo amico e uno dei suoi successori all’Institute for Advanced Study di Princeton: “Einstein fu una figura importante nella storia della scienza, e fu un fermo credente nella trascendenza… Anche molti scienziati meno divinamente dotati di Einstein vedono la massima ricompensa che si può ottenere dall’essere scienziati non nel potere o nel denaro, ma nell’opportunità di cogliere un barlume della bellezza trascendente della natura”.
Analogo il giudizio sul senso religioso di Einstein dello scienziato ateo Christof Koch: “Che le galassie, le automobili, le palle da biliardo e le particelle subatomiche si comportino in maniera regolare descrivibile dalla matematica, e che dunque può essere prevista, è a dir poco stupefacente. In effetti alcuni fisici -il più celebre dei quali era Albert Einstein- credevano in un simile creatore (una sorta di Architetto Divino) proprio in virtù di questo stato di cose ‘miracoloso’. Non è difficile immaginare un universo complesso al punto da essere incomprensibile. Ma il Dio del deista ha creato un universo che non solo è ospitale per la vita: è anche così prevedibile che la sua regolarità può essere colta dalla mente umana”.
In questa seconda fase della vita di Einstein, dunque, stanno insieme, pur tra loro confliggenti, modelli così diversi come Spinoza e Dostoevskij; la negazione di un Dio personale, che però non viene mai considerato razionalmente confutabile, con l’affermazione secondo cui le leggi della natura portano ad una “ammirazione estasiata”, perché rivelano “una mente così superiore che tutta l’intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è al cospetto di essa che un riflesso assolutamente nullo” e generano un “sentimento [che] è parente assai prossimo di quello che hanno provato le menti creatrici religiose di tutti i tempi”.
Ma è nella terza fase della sua vita, quella che comincia circa dopo il 1933, cioè dopo l’ascesa al potere del nazionalsocialismo, che Albert Einstein si allontana del tutto da Spinoza, peraltro amato da vari ideologi nazisti come Alfred Rosenberg, e abbraccia senza mezzi termini Dostoevskij.
Infatti non concorda più con il determinismo spinoziano, ed al contrario afferma la responsabilità personale dell’uomo e l’impossibilità di negare il suo libero arbitrio; inoltre insiste sui sui valori spirituali presenti nella Bibbia, riscoperta con sempre maggiore interesse.
Nel 1943 Einstein, dopo essersi riferito ai profeti ebrei e ai saggi cristiani, elogia il “continuo sforzo interiore” di coloro che “lottino per liberarsi dall’eredità di istinti antisociali e distruttivi”. In un discorso del 1949 scrive che “la scienza non può stabilire dei fini e tanto meno inculcarli negli esseri umani; la scienza, al più, può fornire i mezzi con i quali raggiungere certi fini. Ma i fini sono concepiti da persone con alti ideali etici”, e poco dopo aggiunge che vi sono negli uomini “sviluppi non dettati da necessità biologiche… Questo spiega come succede che, in un certo senso, l’uomo possa attraverso il comportamento influenzare la propria vita e in questo processo possono avere una funzione il pensiero e la volontà coscienti”.
Nel 1950, al reverendo Cornelius Greenway, Einstein scrive che “l’impresa umana più importante è la lotta per la moralità delle nostre azioni… soltanto la moralità delle nostre azioni può conferire bellezza e dignità alla nostra vita”.
Negare l’onnipotenza della necessità biologica e degli istinti naturali, e riferirsi al pensiero e alla volontà “coscienti”, allo “sforzo interiore” di fronte al bene e al male, sono un chiaro allontanamento dalla negazione panteista spinoziana del libero arbitrio, e quindi della personalità, del singolo uomo.
Einstein prosegue così il discorso del 1949: “gli esseri umani non sono condannati a causa della loro costituzione biologica a distruggersi l’un l’altro o ad essere, ad opera delle proprie mani, alla mercé di un fato crudele”.
Stupisce la pigrizia di quanti preferiscono inquadrare una volta per tutte il pensiero di Einstein (un determinista, che non crede in un Dio personale, né nella personalità degli uomini, punto e basta), ma le parole sono pesanti come pietre: l’Einstein maturo critica apertamente, benché implicitamente, il darwinismo sociale, l’idea secondo cui la vita morale dell’uomo si risolve, come nelle bestie, nell’obbedire all’istinto di sopravvivenza e nel partecipare alla lotta per la sopravvivenza del più forte; rinnega del tutto il determinismo tipico dell’evoluzionismo di stampo materialista e panteista ed afferma la libertà, contro il “fato crudele”, contro l’idea dell’uomo figlio dei suoi geni e della sua biologia, dell’inconscio, del determinismo materialistico, e di tutte le moderne riproposizioni del Fato e della Necessità antichi.
Il nazismo (che proprio sulla riduzione dell’uomo ad animale e ai suoi istinti distruttivi ha costruito buona parte della sua ideologia), la guerra mondiale, l’odio e la malvagità umana, ma anche l’eroismo e la bontà di tanti, hanno insegnato a Einstein che le leggi della scienza sperimentale sono poca cosa rispetto alle leggi morali; e che queste ultime devono avere un valore, ma lo hanno soltanto se esistono le persone, il pensiero personale, la volontà cosciente.
Di qui anche i suoi appelli del dopo guerra, ancora una volta con un’ espressione biblica, agli uomini “di buona volontà”, affinché combattano il tradizionale pregiudizio americano per i neri, o l’invito a considerare, accanto alle “leggi della scienza”, “quelle dell’etica”, la cui percezione “è privilegio del genio morale dell’uomo”.
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