Max Planck può essere considerato il padre della fisica quantistica: nel 1900 avanza l’ipotesi che l’energia trasportata da un’onda elettromagnetica (come le onde radio, i raggi infrarossi, la luce) venga assorbita da una cavità da cui l’onda non può più uscire, chiamata tecnicamente “corpo nero” (immaginate una scatola tutta chiusa dove solo attraverso un forellino può entrare un raggio di luce: l’onda luminosa verrà assorbita e riflessa molte volte dalle pareti interne della scatola fino a estinguersi completamente) non in modo continuo ma in quantità discrete multiple di una quantità minima che chiama “quanto d’azione”. Questa quantità minima è determinata moltiplicando la frequenza della radiazione per una costante universale chiamata in seguito “costante di Plank”.
Con questa rivoluzionaria ipotesi Plank riesce a spiegare teoricamente tutte le leggi sperimentali inerenti all’interazione tra radiazione e materia. In seguito (1905) Einstein, applicando l’ipotesi dei quanti, dimostrerà che anche l’energia “trasportata” dalla radiazione obbedisce alla legge di Plank, per cui un’onda elettromagnetica è in realtà composta da questi misteriosi “mattoncini” chiamati poi “fotoni”.
Ma non è di ciò che si vuole parlare, quanto della persona e della filosofia di Planck.
A partire soprattutto dalla sua Autobiografia scientifica, una raccolta di brevi saggi che comincia così: “La decisione di dedicarmi alla scienza fu conseguenza diretta di una scoperta che non ha mai cessato di riempirmi di entusiasmo fin dalla giovinezza: le leggi del pensiero umano coincidono con le leggi che regolano la successione delle impressioni che riceviamo dal mondo intorno a noi, sì che la logica pura può permetterci di entrare nel meccanismo di quest’ultimo. A questo proposito è di fondamentale importanza che il mondo esterno sia qualcosa di indipendente dall’uomo…”.
Siamo di fronte ad un atto di fede di tipo realista, come sarà sempre anche per Einstein.
Planck – che sarà socio straniero dei Lincei nel 1914, Premio Nobel per la Fisica nel 1918, accademico pontificio nel 1936-, procede sostenendo che le conoscenze scientifiche mostrano che “l’assoluto” è “molto più radicato nell’ordine delle leggi naturali di quanto si fosse creduto per molto tempo”, “poiché tutto ciò che è relativo presuppone qualcosa di assoluto, e ha un significato solo quando è confrontato con l’assoluto”.
Planck continua condannando lo scetticismo, da una parte, e dall’altra stigmatizzando chi non è capace “di meravigliarsi più di nulla”; chi, abituato alle leggi che “regolano la sua immagine del mondo”, ignora che “il problema del perché queste e non altre leggi valgano, resta stupefacente e inesplicabile come per il bambino”.
Prosegue Planck: “come vi è un oggetto materiale dietro ad ogni sensazione, così vi è una realtà metafisica dietro tutto ciò che l’esperienza umana dimostra essere reale”.
Per lui ci sono due vie per arrivare al “reale metafisico”, cioè al Dio “della tradizione cristiana” cui egli ama riferirsi: la “vita pratica”, cioè la vita morale, i “valori assoluti dell’etica”, che dimostrano in noi l’esigenza di Bene e la presenza del libero arbitrio, e la via della conoscenza, che è tensione verso il vero assoluto, attraverso il reale relativo. Puntualizza il grande fisico: “per quanto vicina sembri la meta sospirata, rimane sempre un abisso, incolmabile dal punto di vista della scienza esatta, fra il mondo reale della fenomenologia e il mondo reale della metafisica. Questo abisso è la sorgente di una tensione costante, che… è la fonte inesauribile dell’insaziabile sete di conoscenza del vero scienziato. Ma al tempo stesso noi possiamo dare un rapido sguardo ai confini che la scienza esatta è incapace di valicare. Per quanto i suoi risultati possano essere profondi e ricchi di conseguenze, essa non può riuscire a fare l’ultimo passo che la porterebbe nel regno della metafisica”.
Così, in ultima analisi, “la scienza esatta non può fare a meno della realtà nel senso metafisico della parola”, “ma il mondo reale della metafisica non è il punto di partenza, ma lo scopo di tutte le ricerche scientifiche, un faro che brilla e indica la via da una distanza inaccessibile”.
Planck ragiona un po’ come un teologo cattolico medioevale: fonda la realtà dell’essere sull’esistenza dell’Essere, la verità del reale, sull’esistenza della Verità. Proponendosi di esplorare l’esplorabile e di “venerare silenziosamente l’inesplorabile”.
Si capisce allora perché analizzando alcuni “pseudo-problemi”, affermi che “la scienza e la religione mirano, dopotutto, allo stesso scopo, il riconoscimento di un intelletto onnipotente che regola l’universo” (benché lo facciano con metodi diversi).
Per Planck, insomma, se Dio è “all’inizio”, per la religione, Egli è “alla fine del pensiero”, per la scienza. Ed entrambe sono chiamate a combattere insieme “scetticismo” e “miscredenza”, da una parte, e “superstizione” dall’altra (netta la presa di distanza di Planck da monismo, teosofia e dalle “nuove religioni” esoteriche di inizio Novecento).
“In alto, verso Dio”: questa celebre espressione, contenuta in una sua conferenza del 1937, riassume dunque lo sforzo conoscitivo e morale di un grande uomo di scienza, che patirà per anni l’opposizione del regime e di due premi Nobel tedeschi -Lenard, che lo considera cieco, perché credente, e Stark, che lo vede come un burattino di Einstein- , i quali non comprendono “perché un così buon tedesco, un ariano così puro” si rifiuti “di usare la sua enorme influenza a favore della nuova Germania” nazista.
Rispetto al nazismo, infatti, Planck adotta sin dal principio un atteggiamento prudente, ma non certo per interesse personale: mentre l’amico Einstein lascia la Germania, lui, che lo ha sempre aiutato il più possibile ad affermarsi, lo invita a rimanere, pronto a difenderlo, come può, con la sua autorevolezza. Gli scrive: “Da queste Sue azioni, i Suoi fratelli di razza e religione non trarranno alcun alleggerimento della loro situazione, che è già difficile, anzi saranno oppressi ancora di più”.
Planck sa che “non c’è speranza di fermare la catastrofe che si sta per abbattere sulle nostre università e su tutta la Germania” con l’ascesa di Hitler, “un uomo posseduto dalle sue ossessioni”; ritiene però che si debba rimanere al proprio posto, per salvare il salvabile, per limitare il più possibile i danni alla fisica tedesca, alla nazione tedesca, sperando così di poter offrire qualche seme per la ricostruzione, una volta fallito il nazismo.
Lo farà, insieme al suo assistente e grande amico di Einstein, anch’egli premio Nobel per la fisica, Max Von Laue, cercando in ogni modo di difendere gli accademici ebrei minacciati di espulsione, lottando contro gli attacchi nazisti, sino al 1937-1938, quando, ormai ottantenne prende “a viaggiare per tutta la Germania per tenere conferenze” e “per predicare nei territori occupati il valore culturale della scienza e il rapporto di complementarietà tra essa e la religione”.
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Nel 1944 un figlio, Erwin (nella foto, al processo), viene torturato e condannato a morte dal regime nazista, come membro o amico dei protagonisti dell’ operazione Walkiria.
E’ a questo punto che l’anziano Planck, come l’Einstein che predica contro il rischio di una guerra mondiale, prostrato dal dolore, intensifica ancora di più il suo sforzo di “predicatore”, le sue conferenze e le sue lettere (ad es. a von Laue) su scienza e fede, consolato, come scrive ad un amico, dalla “fede nell’Eterno… profondamente radicata in me sin dall’infanzia”; dalla fede “in un altro mondo al di sopra del nostro, dove possiamo trovare rifugio in qualsiasi momento”; dalla convinzione che sia necessario parlare ai giovani, a quanti “lottano per seguire la verità e la conoscenza”.
da: F.Agnoli, Gli amici “speciali”: Planck, Mann, Gödel e Russell, in Filosofia, religione e politica in Albert Einstein, Bologna, 2015.
Di seguito le ultime due pagine della sua citata Autobiografia scientifica e una scheda da La teoria quantistica. Max Planck, speciale di National Geographic, agosto 2016: