Il suo nome è poco conosciuto al grande pubblico, ma nei testi scientifici è sempre accanto a quello, ben più celebre, di Charles Darwin. La scoperta della selezione naturale, infatti, è attribuita ad entrambi, in contemporanea. Stiamo parlando di sir Alfred Wallace (Usk, 8 gennaio 1823-Broadstone, 7 novembre 1913).
Charles Darwin, nella sua Autobiografia, fornisce questa versione: «[…] ma i miei progetti furono sconvolti, perché all’inizio dell’estate del 1858 il signor Wallace, il quale allora si trovava nell’arcipelago malese, mi mandò un saggio: Sulla tendenza delle varietà a separarsi indefinitamente dal tipo originale, in cui si esponeva una teoria identica alla mia. Il signor Wallace mi pregava di leggere il suo articolo e di passarlo in lettura a Lyell, se la mia opinione fosse stata favorevole. Nel “Journal of the Proceedings of the Linnean Society” (1858, 45), ho spiegato i motivi che mi spinsero ad associarmi alla richiesta di Lyell e Hooker di pubblicare un riassunto del mio manoscritto e una mia lettera a Asa Grey, in data 5 settembre 1857, contemporaneamente alla pubblicazione del saggio di Wallace. Dapprima ero molto restio a consentire, pensando che Wallace avrebbe trovato la mia azione ingiustificabile; ma non conoscevo ancora quanto egli fosse generoso e nobile. Il riassunto del manoscritto e la lettera a Asa Grey, non essendo destinate alla pubblicazione, erano scritte male. Invece il saggio di Wallace era scritto in forma mirabile e con grande chiarezza».
Si tratta della ricostruzione classica. Due co-scopritori, con identica tempistica. Sono in molti, però, a dubitare di questa versione dei fatti. E a proporne una revisionista. Secondo la quale Darwin «non si limitò a buttar giù le proprie idee, dopo l’arrivo della lettera di Wallace, ma prese spunto anche da ciò che Wallace aveva scritto».
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Indipendentemente dalla conclusione più vera, che è forse quella meno scandalistica e più convenzionale, alcuni fatti sono certi: Darwin viene ben presto celebrato da molti soprattutto per le sue considerazioni filosofiche. Ha infatti i suoi “mastini” alla Thomas Huxley, e verrà utilizzato, per quanto molto strumentalmente, da positivisti, socialisti, comunisti e nazisti, per dare un fondamento pseudoscientifico a dottrine di stampo ateo, materialista e razzista.
Dottrine, si badi, rispetto a cui Darwin è da considerarsi estraneo (tra l’altro si professa sempre agnostico, mai ateo 1), ma a cui certamente offre talora il fianco attraverso alcune proposizioni, pensieri e relazioni ambivalenti e mutevoli (in particolare con il cugino Francis Galton, padre dell’eugenetica, spesso spalleggiato ed elogiato, talora garbatamente contraddetto), fortemente problematici, perché assai vicini a concezioni riduzionistiche dell’uomo e della sua dignità2.
La fama di Darwin, non solo per i suoi meriti scientifici, accolti da moltissimi, sia credenti (i cosiddetti evoluzionisti teisti), sia non credenti, è però direttamente proporzionale alla dimenticanza di Wallace, che pure ha interessi naturalistici assai vasti, dalla biologia all’astronomia, dalla biogeografia, di cui è considerato fondatore, alle scienze della Terra.
I due naturalisti sono legati da un rapporto amichevole che li accompagnerà sino alla fine della vita. Darwin, per esempio, farà in modo di procurare all’amico, in perenni ristrettezze economiche, un sussidio statale, mentre Wallace sarà tra coloro che porteranno sulle spalle la bara dell’amico defunto, secondo il suo stesso volere.
Ciò non toglie che le differenze tra i due siano notevoli. A partire dalla condizione sociale. A differenza di Darwin, di famiglia facoltosa e ottimi studi, infatti, Wallace proviene da una famiglia povera, che non può permettersi di farlo studiare e lo manda molto presto a lavorare. A queste differenze di classe molti biografi attribuiscono, in parte, le diversità tra i due non solo nel leggere l’evoluzione biologica, ma anche, in generale, i problemi sociali del tempo. Darwin, gentleman e naturalista, sconvolto ben presto dal dolore per la morte della piccola figlia Anna, sarà sempre in linea con il conservatorismo vittoriano, con il quale condividerà una certa diffidenza verso i poveri (colpevoli di riprodursi molto più dei ricchi) e un senso di superiorità, tipico della mentalità coloniale inglese, rispetto ai popoli «selvaggi inferiori»2.
Tre sono dunque, in particolare, le questioni su cui Darwin e Wallace si divideranno, pur mantenendo amicizia e rispetto reciproco: Wallace − che da giovane è un «convinto ed incrollabile materialista», lettore accanito di Voltaire, Strauss e Spencer, mentre diverrà con il tempo credente, finendo in un teismo un po’ nebuloso e in una convinta e a tratti “smodata” professione di fede nello Spiritualismo e nello spiritismo −, infatti, non condivide l’alterna e pur confusa accondiscendenza di Darwin verso le teorie eugenetiche del cugino Galton (definendo l’eugenetica «null’altro che l’invadente interferenza di un’arrogante casta scientifica»); sostiene di aderire alla «grande dottrina dell’Evoluzione per Selezione Naturale», «ma che non ivi è la causa onnipotente, assolutamente bastevole, unica, dello sviluppo delle forme organiche»; afferma che tra animali e uomini vi sono differenze di qualità e non solo di grado, come vorrebbe Darwin nel suo L’origine dell’uomo, perché l’uomo è creatura sì animale, ma anche spirituale, e quindi irriducibile a meccanismi di alcun tipo.
Nel corso degli anni, Wallace, prendendo le distanze da L’origine dell’uomo, sempre più indaga e mette in luce l’originalità dell’uomo, il suo non essere riconducibile a mera materia in evoluzione. Il suo pensiero è caratterizzato dalla convinzione che «l’immane labirinto dell’essere, che vediamo estendersi ovunque attorno a noi, non sia senza un piano» divino, e che non tutto l’uomo sia spiegabile unicamente con la selezione naturale, quasi essa fosse una «causa onnipotente».
Per lui un’Intelligenza superiore ha predisposto il mirabile sviluppo della vita dalla materia inorganica e quello dell’intelligenza umana. Infatti, nel 1864, Wallace pubblica sulla «Anthropological Review» il saggio The origin of human races and the antiquity of man deduced from the theory of natural selection, dove afferma: «Da quando l’uomo è diventato uomo, le sue caratteristiche fisiche hanno perso ogni valore per la sopravvivenza; questa è garantita da un fattore nuovo e sconvolgente, la mente, che rende l’uomo capace di esercitare sulla natura quello stesso potere a cui egli si è sottratto».
E aggiunge: «un esame onesto e inflessibile delle forze della natura ci dice che ad un certo periodo della storia della Terra ci fu un atto di creazione, un dono alla Terra di qualcosa che prima non aveva posseduto, e da quel dono, il dono della vita, è giunta la popolazione infinita e meravigliosa delle forme viventi. Poi, come sapete, io ritengo che vi fu un successivo atto di creazione, un dono per l’uomo, quando uscì dalla sua ascendenza scimmiesca, uno spirito o un’anima. Niente nell’evoluzione può spiegare l’anima dell’uomo. La differenza tra l’uomo e gli altri animali è incolmabile e dimostra che l’uomo possiede una facoltà inesistente in altre creature. Poi ci sono la musica e la facoltà artistica. Ma l’anima è stata una creazione a parte».
L’idea di uomo che Wallace professa, lo porta anche a schierarsi contro vari scienziati contemporanei, complici della promozione di dottrine eugenetiche e razziste. Tra i suoi molteplici interessi c’è infatti l’impegno sociale a favore dei poveri (per i quali, come per i malati e i deformi, gli eugenisti propongono segregazione e sterilizzazione); la sua visione della pena come finalizzata al recupero dei criminali (contro le teorie sui «criminali per natura» e sui «crani deficienti» della criminologia positivista), la sua critica all’eccesso di competizione proprio del capitalismo (che favorirebbe gli individui più egoisti e insensibili) e la lotta culturale contro il razzismo “scientifico”.
È proprio questo impegno contro il riduzionismo pseudo-scientifico di tanti scienziati materialisti a rafforzare la sua battaglia per affermare l’originalità della mente umana: se l’uomo fosse soltanto il frutto di un’evoluzione graduale, anche dal punto di vista mentale, sarebbero giustificabili le teorie razziste secondo cui i popoli neri e i “selvaggi” sono biologicamente inferiori, arretrati, più vicini alle scimmie dei bianchi occidentali. Wallace si schiera invece con tutti coloro che sostengono la discontinuità animale-uomo, e combattono il razzismo, in nome della unicità e della pari dignità, non fisica, ma spirituale, degli uomini stessi.
No − afferma Wallace, in parziale implicita polemica anche con lo stesso Darwin −, il cervello dei neri e dei “selvaggi” non è meno evoluto, «è potenzialmente buono come il nostro». Gli uomini sono tutti potenzialmente umani, e non ve ne sono di bestiali o di umani per motivi biologici. Semplicemente i “selvaggi” non usano pienamente il loro cervello, del tutto umano, «come indica la rozzezza e l’inferiorità della loro cultura».
A tal riguardo, Charles Gross nota che, mentre le esperienze di Darwin sul Beagle lo hanno messo in contatto, occasionalmente e superficialmente, con popoli selvaggi e arretrati, e questo ha «rinforzato il suo credo vittoriano nella superiorità dell’uomo bianco così come la sua avversione alla schiavitù», convincendolo che effettivamente alcuni popoli siano più animaleschi che umani, al contrario le esperienze di Wallace in giro per il mondo lo hanno convinto della «sostanziale identità del carattere umano, sia morale che emozionale, senza alcuna marcata superiorità di una razza o di un paese sull’altro», essendo le differenze tra i popoli culturali e religiose, non biologiche.
Quanto all’evoluzione in generale, si tratta di qualcosa di guidato: «come uomo che studia ciò che lo circonda per vedere dove si trova, la conclusione raggiunta è questa: in tutto il mondo, non qui e là, ma ovunque, e nelle operazioni molto più piccole della natura in cui l’osservazione umana è penetrata, c’è uno scopo e un orientamento continuo e di controllo […]. Potrebbe non essere possibile per noi dire come questa guida viene esercitata, ed esattamente con quali poteri, ma per coloro che hanno occhi per vedere e la mente abituata a riflettere, c’è una direzione intelligente e consapevole, in una parola, vi è una Mente».
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Questo testo è stato estratto da: https://www.ibs.it/creazione-ed-evoluzione-dalla-geologia-libro-generic-contributors/e/9788868791216
1 «D’altra parte non posso accontentarmi di vedere questo meraviglioso Universo e soprattutto la natura dell’uomo e di dedurne che tutto è il risultato di una forza cieca. Sono propenso a guardare ad ogni cosa come il risultato di leggi progettuali (as resulting of designed laws), e che i dettagli, siano essi buoni o cattivi, risultino invece da ciò che noi possiamo chiamare caso […]. Non posso pensare che il mondo così come lo vediamo, possa essere il risultato del caso; eppure non posso guardare ogni singola cosa separata come se essa fosse il risultato di un progetto. Percepisco nel mio intimo che l’intera questione è troppo profonda per l’intelligenza umana. È come se un cane tentasse di speculare sulla mente di Newton» (C. Darwin, The Correspondance of Ch. Darwin, Cambridge UP, Cambridge 1985-1995, 224).
2 Bastino due brani di Darwin: «Noi uomini civilizzati facciamo di tutto per arrestare il processo di eliminazione; costruiamo asili per pazzi, storpi e malati; istituiamo leggi per i poveri ed i nostri medici esercitano al massimo la loro abilità per salvare la vita di chiunque all’ultimo momento. Vi è motivo per credere che la vaccinazione abbia salvato un gran numero di quelli che per la loro debole costituzione un tempo non avrebbero retto al vaiolo. Così i membri deboli delle società civilizzate propagano il loro genere. Nessuno di quelli che si sono dedicati all’allevamento degli animali domestici dubiterà che questo può essere altamente pericoloso per la razza umana […]. Dobbiamo quindi sopportare l’effetto, indubbiamente cattivo, del fatto che i deboli sopravvivano e propaghino il loro genere, ma si dovrebbe almeno arrestarne l’azione costante, impedendo ai membri più deboli e inferiori di sposarsi liberamente come i sani» (Darwin, L’origine dell’uomo, Newton Compton, Roma 1994, 628).